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   Esperienze:

   Qualità in ospedale? La parola al Tribunale del Malato


Fonte: Humanitas Salute

Servizi clinici ed accoglienza, chiusura dei piccoli presidi, umanizzazione e sicurezza in corsia. Intervista a Stefano Inglese del Tribunale dei Diritti del Malato

Ospedali più umani, migliori qualità delle prestazioni, monitoraggio continuo dei servizi sanitari erogati.
Sono questi alcuni degli obiettivi e delle attività svolte dal Tribunale per i diritti del malato, una struttura costituita da cittadini comuni, operatori dei servizi e da professionisti che si impegnano come volontari: in totale più di 10.000 cittadini attivi nei servizi territoriali per il Tribunale che è una parte del movimento “Cittadinanza attiva”.
Il Tribunale sta preparando il rapporto sicurezza 2002 sulla sanità in Italia, dopo aver monitorato 70 nuove strutture sanitarie. Sulla qualità degli ospedali in Italia abbiamo intervistato il segretario nazionale del Tribunale per i Diritti del Malato, dottor Stefano Inglese.

Ospedali italiani e qualità: quali sono le valutazioni del tribunale per i diritti del malato?

“E’ difficile poter valutare con precisione la qualità delle prestazioni negli ospedali poiché, finora, manca un “indicatore di esito” preciso e attendibile, un’indagine seria e concreta sulla casistica ospedaliera. Perciò le nostre valutazioni sulla qualità alberghiera e sulla sicurezza degli ospedali si basano, in parte, su “parametri ufficiali” messi a disposizione dalle Regioni e dal Ministero della Salute; in altra parte, facciamo riferimento alle numerosissime segnalazioni, pervenute direttamente dai cittadini, registrate nelle 300 sezioni del Tribunale.
Posso solo dire che è ancora bassa la qualità alberghiera negli ospedali pubblici del Centro Sud, mentre la qualità tecnica e la sicurezza delle prestazioni sanitarie è sostanzialmente buona nel settore pubblico in tutte le regioni.
Su 50.000 segnalazioni ricevute dalle nostre sezioni sparse nel territorio il 30% si riferisce a sospetti errori di terapia. Nell’ambito della dislocazione delle strutture nel territorio, gli ospedali pubblici offrono migliori garanzie in certi settori, come la terapia intensiva, le emergenze, la rete di sicurezza e la rianimazione, rispetto alle strutture private.
D’altra parte, il servizio pubblico paga qualcosa in termini di qualità delle relazioni umane e di qualità alberghiera”.

Che livello di accoglienza alberghiera offrono gli ospedali italiani?

“Negli ultimi dieci anni si è parlato parecchio della qualità nelle strutture sanitarie: si sono fatti passi avanti concreti, attraverso interventi di grande significato, per elevare la qualità dello standard dell’accoglienza ospedaliera. Incide parecchio per le aziende sanitarie la necessità di operare con risorse ancora limitate: per tenere i bilanci in ordine molte aziende ospedaliere sono state costrette a tagliare i costi.
In questo panorama non certo roseo, i grandi ospedali e i policlinici hanno problemi diversi da quelli delle medie o piccole strutture: per questi ultimi – com’è ormai noto - c’è il rischio di chiusura, ristrutturazione o riconversione”.

Chiusura dei piccoli ospedali: qual è la vostra posizione?

“Tengo a precisare che siamo contrari all’idea di voler mantenere attivo a tutti i costi l’ospedale sotto casa, ma – per una serie di motivi - non condividiamo nel merito l’operazione che si sta svolgendo nel nostro Paese, orientata solo al recupero di risorse finanziarie.
Perché? In primo luogo è un sistema calato dall’alto, attraverso le Regioni: non ci convince affatto perché – nella stragrande maggioranza dei casi – le popolazioni locali e persino i sindaci interessati alla chiusura delle strutture sanitarie non vengono consultati.
Secondo: non contestiamo il diritto di “tagliare” un piccolo presidio sanitario in un piccolo centro, che magari fornisce prestazioni di livello inadeguato, ma la chiusura deve avvenire solo dopo l’attivazione di un servizio sanitario sostitutivo per i cittadini.
Terzo punto: contestiamo l’idea di applicare in termini assoluti i parametri stabiliti dall’OMS per decidere quali ospedali tagliare: si è stabilito, infatti, che il territorio deve disporre di 4 posti letto su 1000 abitanti per i casi acuti e uno su 1000 abitanti per la riabilitazione e la lungodegenza.
A nostro parere, non possono essere criteri definitivi, ma bisogna avere il coraggio di esaminare tutte le situazioni caso per caso altrimenti si rischiano proteste popolari in serie.

Quarto punto: dove prendere i fondi necessari per ristrutturare gli ospedali?

Se, per esempio, si fa una riconversione di un piccolo presidio per malati acuti in una struttura per la riabilitazione, è evidente che servono soldi per trasformare il nosocomio, per dotarlo delle apparecchiature necessarie e per addestrare nuovamente il personale”.

Quanto tempo occorre per attuare le riconversioni?

“In questo delicato settore è sbagliato bruciare i tempi, tagliando le strutture sanitarie in soli due o tre mesi.
Si dovrebbe prendere esempio da amministrazioni come la regione Toscana che ha dialogato con le comunità locali, portando le sue strutture sanitarie da 94 a 43 in 5 anni: un’operazione di grande respiro, certamente non indolore, che ha cambiato radicalmente il volto alla rete ospedaliera regionale”.

Quali sono le regioni che vorrebbero bruciare i tempi, tagliando e riconvertendo le proprie strutture sanitarie in pochi mesi?

“Sono quelle amministrazioni più pressate dall’esigenza di rientrare nei parametri del 4 per 1000 e dell’1 per 1000.
Le Regioni che non si metteranno in regola, infatti, non potranno accedere alle quote del Fondo Sanitario Nazionale stabilite per le “Amministrazioni locali”.

Si stanno facendo passi concreti verso l’umanizzazione degli ospedali italiani?

“Negli ultimi 20 anni sono stati compiuti grandi passi avanti, ma in questi ultimi mesi stiamo rischiando di compromettere tutto. Un lato positivo?
C’è maggiore consapevolezza e disponibilità da parte degli operatori sanitari nei confronti del ricoverato.
L’aspetto negativo?
La preoccupante deriva produttivistica delle strutture ospedaliere. In sostanza, oltre a tagliare i costi, si tende al profitto esasperato.
Assistiamo preoccupati ad una moda che sembra inarrestabile: tenere il minor tempo possibile l’assistito in una stanza d’ospedale.
Oggi le parole d’ordine in corsia sembrano: ricoverare il meno possibile, dimettere al più presto per liberare il posto letto.
Ciò è possibile solo entro certi limiti, sono processi fisiologici del sistema sanitario, ma, da un paio d’anni, registriamo un fenomeno in grande crescita: quello delle dimissioni forzate dei malati cronici da certi ospedali.
Un’altra aberrazione, secondo noi, è l’abuso delle prestazioni in “Day Surgery”, che non può essere utilizzata per praticare risparmi sulla gestione delle sale operatorie e sulle degenze postoperatorie.
Non si possono liquidare in poche ore pazienti che hanno la necessità, invece, di essere operati in maniera tradizionale.
E non dobbiamo trascurare l’esigenza per gli operati di poter usufruire di tutta una serie di accertamenti post-chirurgici per i quali occorrono anche parecchi giorni”.

A cura di Umberto Gambino




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